lunedì 1 novembre 2010

Let them be you



Nella notte dei travestimenti, dei mostri e delle streghe, incontrando la morte dentro una Micra sulla strada per Rozzano, nella notte di Halloween, le coppie Luini e Peccati si sono date ai giochi in scatola.
Visual Game è stato vinto dalla coppia Luini, al che il mio ragazzo sportivissimo ha esclamato “Cambiamo gioco. Non mi piace perdere!”. E capisco come mai Dio li fa e poi noi ci accoppiamo. Lo capisco benissimo io, che, in un impeto di noia, dopo aver perso a Monopoli, aspettando che gli altri finissero il gioco, mi sono messa a giocare a biglie col fiaschetto, la mela e le altre pedine e pure con le casette, destando le ire dei partecipanti. Ero giovane, in una vacanza di capodanno di pochi anni fa.
Il mio amico Luino ha appena intrapreso un corso di improvvisazione teatrale ed è talmente entusiasta che propone “Giochiamo a Visual Game mimando!”. E capisco come mai siamo nati lo stesso giorno. Noi pesciolini ci piace molto giocare come quando si era bambini “Facciamo che io ero la mamma e tu eri il figlio cattivo…”.
Io sono contenta di mettermi a mimare proverbi e frasi celebri, mentre Luina e il mio ragazzo sportivo e vergognoso sono assolutamente contrari. Raggiungiamo un accordo: i pesci mimano e i gemelli disegnano. Una sorta di Visual Game autistico fra i vari concorrenti e fra i giocatori della stessa squadra, ma fra di noi ci si capisce e quindi il gioco ha inizio.
Quando ti vergogni a metterti in ridicolo, ma scopri che le altre persone sarebbero più ridicole di te nel farlo, eppure lo fanno lo stesso e non gli importa del giudizio, ma solo di ridere e di far ridere, allora non ti vergogni più, anzi ti ci butti e ci prendi gusto e non vedi l’ora che arrivi il tuo turno per le imitazioni. Il mio ragazzo sportivo è passato, così, da modalità vergognosa a cinema storico hollywoodiano. Io sono molto fiera di lui, cinematograficamente parlando.
Siamo pari. Peccati contro Luini. Medici contro fotografi. Noi ne sappiamo, ma loro ne vedono.
Pesco una carta e mi capita “Sano come un pesce”. A fare il pesce è facile, ma come si fa ad imitare una persona in salute? Nella concitazione della clessidra, ho deciso di imitare un perfetto stato di salute, passando dapprima per la malattia. Perché la malattia è statica, riproducibile, ma la salute proprio no. La malattia ti ferma e desta attenzione, la salute invece è scontata e non la riconosci (a meno che tu non lavori in un reparto per acuti e allora ringrazi il cielo di vedere gente che cammina sulle proprie gambe).
Questo mi ha aperto un interrogativo mentale che mi attanaglia anche oggi che le streghe si son tolte il cappello, ma non possono togliersi il loro brutto porro sul loro grosso naso.
Penso che la malattia sia sopravvalutata e la salute sottovalutata. Non parlo della salute fisica: questo è un tema molto delicato, in cui la malattia assume una dimensione molto personale e non assolutamente criticabile. Parlo, invece, della salute mentale, intesa come senso di benessere psicologico, al di là della patologia psichiatrica, e quindi documentabile.
Il disagio interiore è IN, star bene dentro è OUT. Mi sembra che la gente arranchi nella tristezza, per poi crogiolarsene nel proprio intimo. Mi sembra che la gente faccia la guerra con sé stessa, invece di creare la pace con gli altri. Mi sembra a me, ovviamente.
Io non sopporto la mancanza di serenità che trasuda da molte affermazioni che sento, da molte parole che leggo in giro, anche e soprattutto per l’etere. Leggo di questi disguidi interiori che, invece di essere superati, vengono reiterati. Io non sopporto la reiterazione di un atteggiamento negativo. Non la sopporto perché ne ho paura. Io ho paura della gente infelice. Gente, non ti vieto il diritto all’infelicità, ma ti vieto di abrogarti di diritto la costante all’infelicità.
Io, nei miei momenti bui, ho sempre desiderato ardentemente essere felice. Poi, quando i momenti bui sono passati, ho capito che felice lo ero anche quando non riuscivo a vedere ad un palmo dal mio naso. Ero disperata, ma felice. Ci speravo e questo bastava a sentirla. Ho provato a crogiolarmi nei dolori e i dolori diventavano ancora più atroci. Così non mi sono fermata e loro mi hanno seguita, fedeli. E la fedeltà si è trasformata in una grande spinta: quando mi fermo, loro mi spingono avanti. Giusto o sbagliato, questo è il mio modo.
Gente, giusto o sbagliato, questo è il tuo. Io, però, ad avvertire questo grigiume, questa uggiosità del paese in cui abiti, questo digrignare di denti, questo ricacciare indietro le lacrime, questo conversare solo fra te e te, io, dicevo, nel tuo paese non ci voglio venire, manco per un weekend. Perché mi fai rabbia e paura. Paura, soprattutto.
La rabbia e la paura le so imitare, la salute no. Ed io vorrei esprimermi solo attraverso quest’ultima. Quindi, gente, scusami, ma non scomodarti nemmeno a mandarmi una cartolina. Vieni a trovarmi tu, semmai, che qui c’è il sole anche quando piove. E quando nevica c’è un camino caldo e scoppiettante e odore di legna bruciata e un sacco di risate. Mimando “prender lucciole per lanterne”. Se poi ti dovessi perdere, ricordati che “tutte le strade portano a Roma”.

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