mercoledì 8 dicembre 2010

Apoptosi

Lasciarsi a Milano

D’ inverno
con la pioggia che cade
sulle storie finite.
È così strano
l’inferno
con il gelo che scende
su questo atroce dolore,
così disumano;
di notte
con il sonno perduto
su questi ricordi.
E’ così strano
lasciarsi un giorno d’inverno
a Milano.



domenica 5 dicembre 2010

Alzheimer Disease



1.      Ti ricordi quando strappavi lo scotch e stappavi la penna per lasciarmi piccoli inconsapevoli segnali di te sull’armadietto?
2.      Ti ricordi quando hai detto a tutti del mio compleanno? E quando hai confidato solo a me del tuo desiderio di  un tango in un porto sicuro?
3.      Ti ricordi quando fumavamo solitari le nostre sigarette su una panchina nascosta sul retro?
4.      Ti ricordi quando le nostre mani si sono allacciate sul ponte del belvedere delle lavandaie?
5.      Ti ricordi quando abbiamo perso la lucciolata, ma non abbiamo perso il treno che stava passando davanti a noi in quell’istante?
6.      E ti ricordi le attese a scadenza fissa, mentre la strada scozzese scorreva sotto la mia guida al contrario?
7.      Ti ricordi quella telefonata alla luna del nord, agli antichi di Maes Howe, al mare grosso e infinito che si schianta sull’Old Man of Hoy? Ti ricordi?
8.      Ti ricordi quella foto di riflessi al parco e una notte di Evita e di strusciamenti?
9.      Te lo ricordi il nostro primo bacio? No, io no.
10.  Ti ricordi sull’uscio della porta quando hai sbirciato dentro, che mi hai detto “E’ lei, è nostra!”?
11.  Ti ricordi i miei occhi lucidi di fronte alla frittura di pesce mentre canticchiavi non so più cosa?
12.  Ti ricordi le brioches al parcheggio del McDonald, ti ricordi che mi stavi raccontando dei tuoi clienti fissi in gelateria?
13.  Ti ricordi in auostrada senza colonna sonora che mi stavi ancora raccontando dei tuoi clienti fissi in gelateria?
14.  Ti ricordi le lacrime e il Papa?
15.  Ti ricordi il camino acceso e i nostri corpi sotto le coperte e le mani sotto le mutande?
16.  Ti ricordi il riso alle 2 di notte? Te li ricordi le scale scese e salite, il divano e il letto, il cespuglio e la pioggia, il lago e il ghiaccio, le bende e i massaggi, le bugie e la carne, la brace e la pace?
17.  Ti ricordi la tua firma sotto alla mia e in mutande alle 2 di notte in un caldo anomalo di ottobre?
18.  Ti ricordi lo spezzatino e la paura del baule?
19.  Ti ricordi le code al Dimeno? E giocare ad “Ok il prezzo è giusto” con la cassiera ad arbitrare?
20.  Non di meno ti ricordi i risvegli in bianco, la neve che ci isolava, i riposini al caldo?
21.  Te li ricordi i venerdì pomeriggio, i toast con coca-cola e il letto senza lenzuola? E poi i sabati col bacio transfinestrino o lo squillo postritorno?
22.  Ti ricordi la scrivania di tuo padre?
23.  E la merenda da tua nonna?
24.  E Mulan?
25.  E la canzone della cacca, mio principe cacca?
26.  I saldi ad Orio, quelli sì che te li ricordi.
27.  Ti ricordi Sherlock Holmes senza trailers?
28.  Ti ricordi quando ti massaggiavo con gli incensi e la musica? E quando ti massaggiavo senza incenso e senza musica?
29.  I grattini.
30.  Ti ricordi il mio taglio rockabilly?
31.  Ti ricordi quando russi cosa faccio sempre?
32.  Ti ricordi le increspature del mare da 10.000 piedi di altezza? Te lo ricordi che si vedevano lo stesso anche se non eravamo all’ala destra?
33.  Quel fantastico hamburger  tet-à-tet nel ristorante vuoto dell’albergo, quello sì, lo so che lo ricordi.
34.  E l’ustione del giorno dopo? E Tarragona dall’alto?
35.  E il bagno in piscina sul tetto? Il caldo catalano te lo ricordi?
36.  Te le ricordi le ciliegie più care della storia del commercio delle ciliegie?
37.  Te li ricordi i pulcini più sfortunati della storia dei pulcini?
38.  Te la ricordi la tua bocca aperta davanti ai sex toys?
39.  Te la ricordi la tua bocca aperta davanti alla Sagrada Familia?
40.  Ti ricordi quando palpeggiavo il capo del capo del tuo capo al mio esame? Te lo ricordi che non volevo ci fossi anche tu, come ogni volta? E tu, come ogni volta, sei venuto a sentire il mio esame?
41.  Ti ricordi come abbiamo sudato?
42.  Ti ricordi le cene a letto?
43.  E i gelati te li ricordi?
44.  E i giorni sotto al pergolato?
45.  E ti ricordi quando all’Esselunga hai accennato all’ultima volta insieme ed io mi sono
arrabbiata?
46.  Ti ricordi gli gnocchetti ai moscardini?
47.  E il gelato alla pesca?
48.  Ti ricordi come cambiava la vegetazione? Com’era arida?
49.  Te lo ricordi l’agnello vivo sullo stomaco?
50.  Ti ricordi come si chiama anche la ferratella?
51.  Te lo ricordi il cofanetto come mi piaceva?
52.  Te lo ricordi a dormire tu, io e il gatto sul divano?
53.  Te li ricordi veri i fulmini mentre ci lasciavamo galleggiare all’aperto di un piovoso giorno d’agosto in Brianza? Te lo ricordi il temporale monsonico in Brianza?
54.  E il picnic sul balcone?
55.  E dopo il picnic te lo ricordi il balcone?
56.  E dopo il balcone ti ricordi?
57.  E i pianti fuori dall’Ikea col portafogli vuoto?
58.  Ti ricordi quando ci faceva male il sedere dopo la prima pedalata al mare?
59.  Ti ricordi come eravamo rossi dopo il primo sole siciliano?
60.  Ti ricordi la sabbia nel letto?
61.  Ti ricordi la sabbia a raggrinzire la pelle?
62.  Ti ricordi la piazza alle 2 del pomeriggio? Il nulla silenzioso del caldo sud?
63.  Ti ricordi le discese e le salite in bicicletta?
64.  Ti ricordi il pranzo a ripararci dietro alla barca?
65.  Ti ricordi la galleria?
66.  Le infradito a premere sul fondo delle interdigitazioni, tirate dal pedale. Le infradito che scivolano con la sabbia.
67.  Ti ricordi le onde azzurre, sotto un cielo azzurro e gli scogli bianchi?
68.  Ti ricordi le grotte? E la pizza più buona dell’isola che non abbiamo mai assaggiato?
69.  Ti ricordi la prima volta in cui ho visto il vero principe cacca?
70.  Ti ricordi Glenn Cooper?
71.  Ti ricordi la festa di paese e la cena di pesce?
72.  Ti ricordi che abbiamo ordinato ben 3 secondi piatti e tu hai fatto la punta per tutta la sera a 5 euro sotto ad un tavolo?
73.  Ti ricordi il pazzo che cantava? E “i migliori anni della nostra vita”?
74.  Ti ricordi i fichi d’india?
75.  Ti ricordi le scale antincendio? Ti ricordi che non mi piace la pizza, ma che la mangio tutti i giorni?
76.  Ti ricordi tutto questo?
77.  Ti ricordi, amore?
78.  Ti ricordi?
79.  Ricordi?
80.  Amo?

Scoring system
Se ti ricordi almeno 80 di 80 “ti ricordi”, l’Alzheimer del nostro amore è ancora ben lontano dal manifestarsi.

NB
Anche i tatoni possono essere sottoposti al test.

martedì 30 novembre 2010

Rules for dudes


Rinchiudimi in una regola.
Una regola che regoli la felicità. 
Che regoli la tristezza. 
Che regoli le persone che ti fanno felice, che ti fanno triste.

Rinchiudimi in una regola.
Una regola val bene la tranquillità. 
E chi è tranquillo è sereno. 
E, si sa, la serenità regola la vita.

Rinchiudimi in una regola.
Qui è bene e qui è male. 
Scelgo dove sto che poi così ci si regola.

Rinchiudimi in una regola.
I miei gusti, i miei principi, il mio carattere. Ciò che mi regola.
Ti prego, rinchiudimi in una regola.

Fammi sentire che a me ci tieni, che non mi vuoi mai lasciare andar via. 
Che di me hai bisogno. 
Hai bisogno di una regola.

Rinchiudimi in una regola.
Affinchè finiscano i giochi ed io non possa più respirare. 
Perché non ci sia più nulla da scoprire.

Rinchiudimi in una regola.
Che poi ci siam già detti tutto. 
E se tiri troppo la corda si spezza 
e poi, io che son buona e cara, ti faccio vedere che cosa succede.

Rinchiudimi in una regola.
La regola della buonanotte. 
Del ti penso a tutte le ore. 
Del sogno che si avvera.

Rinchiudimi lì, in quel clichè.
Del ti amo, ma pretendo.
Dell’affetto, ma sta’ attento.

Richiudi ancora un po’.
Rinchiudi la sorpresa nell’aspettativa. 
Rinchiudi l’aspettativa nell’attesa. 
L’attesa della resa dei conti.

Logora.
Da dentro, l’amore.
Da fuori, la paura di sé.

Brucia.
Da dentro, l’ingenua passione.
Da fuori, il bisogno di farsi sentire. Da sé.

E non son gli opposti. E non son niente.

Il giudizio, né a me né agli altri.

Fai, senza troppe parole.
Come da piccolo.
Senza che nessuno ti veda.

sabato 20 novembre 2010

"Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato."
George Orwell 

It’s raining cats and dogs

Piove.
Qui lo dico, e pure ad alta voce, perché la pioggia che batte sul mio soffitto mansardato fa molto rumore. Molto.
Sabato, in un’altra giornata uggiosa, sono andata a tagliarmi i capelli: da capello corto a capello corto. Da normalità ad audacia.
I consensi raccolti naturalmente non sono stati unanimi, ma quel che importa è che le persone giuste abbiano a loro modo espresso gradimento:
1.      Il mio ragazzo ha espresso gradimento in maniera molto convincente. Mui gradimento.
2.      Il mio migliore amico ha espresso gradimento in maniera molto fashion. Very pleasure.
3.    Il mio “mentore” ha espresso gradimento in maniera sociopatica. Emozione, molta. Emozione, molta. Pipa, fumo, un minuto, lavoro, di nuovo.
4.    Un nobile professore ha espresso gradimento con modi da mollusco. Grazie mille. Fa specialmente piacere.
Gli altri li ringrazio lo stesso, non tanto perché abbiano ugualmente espresso parere riguardo ad un argomento frivolo come il taglio di capelli, quanto perché abbiano comunque voluto partecipare di un argomento frivolo come il parrucco.



In quest’autunno di pioggia stare in equilibrio sugli alberi, le foglie gialle e rosse che moh cadono, significa avere un georgiano nella stanza accanto, che, paralizzato lui, paralizza dalla paura anche chi capita in corridoi di reparti proibiti. Significa, però, anche organizzare un'alternativa ad un noioso sabato sera, organizzare una cena di Natale in famiglia, con nuovi membri, significa immaginarsi future famiglie, con me come capafamiglia. E tanti rami, quest'albero, per fortuna!
Stare in equilibrio aiuta a non cadere, a stare sempre attenti a rimanere in equilibrio. Stare in equilibrio è quasi una garanzia, allora.
Ci penso e mi rendo conto che ci son cose che lascio apposta in uno stato di precarietà, per potermi accertare ogni giorno che siano ancora nel loro stato di precarietà. Ed ogni giorno contemplarle ed ogni giorno prendermene cura. Ci penso, prego per loro, voglio bene. Insomma. Così.
Vorrei che tutto potesse camminare su un filo. O meglio, vorrei che tutti sapessimo che ogni cosa di noi, ogni cosa a noi cara, ognuna delle nostre vite cammina su questo filo. E vorrei che tutti stessimo sempre a riaggiustarci e a riaggiustare un equilibrio, stando attenti a quando questo possa venir meno, anticipando questo momento, se no sarebbe troppo tardi.
Ci son volte in cui ti metti la mano davanti agli occhi, ancor prima di guardare l’orizzonte in una giornata di sole. Lo fai prima. Prima che questo ti accechi e ti impedisca di vedere.
La lungimiranza è l’arte dell’equilibrista: aggiustarsi i contrappesi prima di avvertire forza, direzione e verso. La lungimiranza è un’accortezza che i saggi ed esperti equilibristi adoprano con disinvoltura ineccepibile, ma è snobbata e derisa dall’incosciente che, per la prima volta sul filo, crede di poter prevenire una caduta, regolando il suo equilibrio, una volta che questo venga meno. Invece non c’è bisogno di conoscere ciò che ti farà vacillare per sapere che ti potrebbe far cadere. Non c’è bisogno di affrontare un pericolo per sapere che potrebbe essere tale. Non c’è bisogno di aver camminato sul filo tante volte per sapere che a cadere c’è sempre la possibilità.
C’è solo da riaggiustare gli equilibri, perdendoci la vita a conoscere di noi stessi ogni singola fibra muscolare che ci possa aiutare in questa impresa. E perdendoci i ghigni, le espressioni, piccoli segni di noi, intenti ed attenti. E noi non sappiamo, eppure ci sono.
[Così come non sanno, quelli nella 9, di chi ci sia nella 10F. Eppure c'è.]

martedì 16 novembre 2010

Ora.

Così





Saprai che non t'amo e che t'amo
perché la vita è in due maniere,
la parola è un'ala del silenzio,
il fuoco ha una metà di freddo.
Io t'amo per cominciare ad amarti,
per ricominciare l'infinito,
per non cessare d'amarti mai:
per questo non t'amo ancora.
... 
Il mio amore ha due vite per amarti.
Per questo t'amo quando non t'amo
e per questo t'amo quando t'amo.
PN

Due anni fa.

Mi sentivo così:


Nella strana anomalia della mia esistenza, i miei sentimenti non erano mai venuti dal cuore e le mie passioni erano sempre venute dalla mente.
Edgar Allan Poe 



domenica 14 novembre 2010

Inspiring others towards happiness brings you happiness.



E il cielo è blu.
Lo dici tu.
Sì, lo dico io. Anzi, è ciano. E’ sereno e so che si vedrebbe la torre della Telecom, se solo potessi sporgermi dalla finestra. Non posso farlo, però, perché i vicini mi vedrebbero.
Sto nascondendo i nostri momenti di pornoamore, amore, e, visto che hai lasciato le zanzariere aperte nella fretta di tirar giù le persiane per il primo “ciak”, so anche dirti con sicurezza di chi sia la colpa per la cimice sulla lampada Ikea.
Il cielo è ciano e tu hai un occhio destro nuovo che guardo ora per la prima volta dopo all’incirca 441,3343229583333 giorni che stiamo ufficialmente insieme. Il tuo occhio castano, vecchio ma nuovo, usato ma buono, più chiaro del mio. Mi guarda e mi chiede “per sempre”? Ti dono anche l’eternità, amore, ma fammi cambiare posizione se non vuoi una neverending story da 10 minuti appena.
Io ci sarò anche dopo che saranno finiti il gorgonzola, l’emmenthal, le uova, la cioccolata e il the. Quel tuo occhio nuovo, però, c’è da oggi. Giuro che non l’avevo mai notato prima.
E mi son bloccata lì: sotto il mio naso un occhio nuovo, con la coda dell’occhio una pennellata di ciano. E il tempo procedeva a scatti, saltando secondi. A tratti mi accorgevo. A tratti lucidamente mi sembrava che mi fosse svelato qualche strano segreto. A tratti aprivo i miei occhi già aperti. Ciano. Scatto. Occhio. Scatto.
Ecco, io in quel momento mi son sentita così nuova che non saprei nemmeno dire come mi son sentita. Mi son sentita che mi ha impressionato e me lo ricordo, tanto e vivido. E riferisco. Appendo in bacheca, giù in portineria, che così tutte passano, leggono e prendono atto. Sì, perché, a volte, c’è solo da prenderne atto.

lunedì 1 novembre 2010

Let them be you



Nella notte dei travestimenti, dei mostri e delle streghe, incontrando la morte dentro una Micra sulla strada per Rozzano, nella notte di Halloween, le coppie Luini e Peccati si sono date ai giochi in scatola.
Visual Game è stato vinto dalla coppia Luini, al che il mio ragazzo sportivissimo ha esclamato “Cambiamo gioco. Non mi piace perdere!”. E capisco come mai Dio li fa e poi noi ci accoppiamo. Lo capisco benissimo io, che, in un impeto di noia, dopo aver perso a Monopoli, aspettando che gli altri finissero il gioco, mi sono messa a giocare a biglie col fiaschetto, la mela e le altre pedine e pure con le casette, destando le ire dei partecipanti. Ero giovane, in una vacanza di capodanno di pochi anni fa.
Il mio amico Luino ha appena intrapreso un corso di improvvisazione teatrale ed è talmente entusiasta che propone “Giochiamo a Visual Game mimando!”. E capisco come mai siamo nati lo stesso giorno. Noi pesciolini ci piace molto giocare come quando si era bambini “Facciamo che io ero la mamma e tu eri il figlio cattivo…”.
Io sono contenta di mettermi a mimare proverbi e frasi celebri, mentre Luina e il mio ragazzo sportivo e vergognoso sono assolutamente contrari. Raggiungiamo un accordo: i pesci mimano e i gemelli disegnano. Una sorta di Visual Game autistico fra i vari concorrenti e fra i giocatori della stessa squadra, ma fra di noi ci si capisce e quindi il gioco ha inizio.
Quando ti vergogni a metterti in ridicolo, ma scopri che le altre persone sarebbero più ridicole di te nel farlo, eppure lo fanno lo stesso e non gli importa del giudizio, ma solo di ridere e di far ridere, allora non ti vergogni più, anzi ti ci butti e ci prendi gusto e non vedi l’ora che arrivi il tuo turno per le imitazioni. Il mio ragazzo sportivo è passato, così, da modalità vergognosa a cinema storico hollywoodiano. Io sono molto fiera di lui, cinematograficamente parlando.
Siamo pari. Peccati contro Luini. Medici contro fotografi. Noi ne sappiamo, ma loro ne vedono.
Pesco una carta e mi capita “Sano come un pesce”. A fare il pesce è facile, ma come si fa ad imitare una persona in salute? Nella concitazione della clessidra, ho deciso di imitare un perfetto stato di salute, passando dapprima per la malattia. Perché la malattia è statica, riproducibile, ma la salute proprio no. La malattia ti ferma e desta attenzione, la salute invece è scontata e non la riconosci (a meno che tu non lavori in un reparto per acuti e allora ringrazi il cielo di vedere gente che cammina sulle proprie gambe).
Questo mi ha aperto un interrogativo mentale che mi attanaglia anche oggi che le streghe si son tolte il cappello, ma non possono togliersi il loro brutto porro sul loro grosso naso.
Penso che la malattia sia sopravvalutata e la salute sottovalutata. Non parlo della salute fisica: questo è un tema molto delicato, in cui la malattia assume una dimensione molto personale e non assolutamente criticabile. Parlo, invece, della salute mentale, intesa come senso di benessere psicologico, al di là della patologia psichiatrica, e quindi documentabile.
Il disagio interiore è IN, star bene dentro è OUT. Mi sembra che la gente arranchi nella tristezza, per poi crogiolarsene nel proprio intimo. Mi sembra che la gente faccia la guerra con sé stessa, invece di creare la pace con gli altri. Mi sembra a me, ovviamente.
Io non sopporto la mancanza di serenità che trasuda da molte affermazioni che sento, da molte parole che leggo in giro, anche e soprattutto per l’etere. Leggo di questi disguidi interiori che, invece di essere superati, vengono reiterati. Io non sopporto la reiterazione di un atteggiamento negativo. Non la sopporto perché ne ho paura. Io ho paura della gente infelice. Gente, non ti vieto il diritto all’infelicità, ma ti vieto di abrogarti di diritto la costante all’infelicità.
Io, nei miei momenti bui, ho sempre desiderato ardentemente essere felice. Poi, quando i momenti bui sono passati, ho capito che felice lo ero anche quando non riuscivo a vedere ad un palmo dal mio naso. Ero disperata, ma felice. Ci speravo e questo bastava a sentirla. Ho provato a crogiolarmi nei dolori e i dolori diventavano ancora più atroci. Così non mi sono fermata e loro mi hanno seguita, fedeli. E la fedeltà si è trasformata in una grande spinta: quando mi fermo, loro mi spingono avanti. Giusto o sbagliato, questo è il mio modo.
Gente, giusto o sbagliato, questo è il tuo. Io, però, ad avvertire questo grigiume, questa uggiosità del paese in cui abiti, questo digrignare di denti, questo ricacciare indietro le lacrime, questo conversare solo fra te e te, io, dicevo, nel tuo paese non ci voglio venire, manco per un weekend. Perché mi fai rabbia e paura. Paura, soprattutto.
La rabbia e la paura le so imitare, la salute no. Ed io vorrei esprimermi solo attraverso quest’ultima. Quindi, gente, scusami, ma non scomodarti nemmeno a mandarmi una cartolina. Vieni a trovarmi tu, semmai, che qui c’è il sole anche quando piove. E quando nevica c’è un camino caldo e scoppiettante e odore di legna bruciata e un sacco di risate. Mimando “prender lucciole per lanterne”. Se poi ti dovessi perdere, ricordati che “tutte le strade portano a Roma”.

domenica 31 ottobre 2010

Connecting people



All’incirca un mese fa, anzi, per essere precisi, il 23 settembre, mi sono recata al centro Wind. 
Io ho avuto per anni una relazione complicatissima con un’altra compagnia di telefonia mobile, che mi corteggiava, mi illudeva, mi faceva i regalini, le sorpresine, si ricordava di tutte le ricorrenze, veniva in vacanza con me all’estero (romanticissima Parigi al telefono), per poi alla fine chiedermi il conto di tutto. Carissimo.
Così, piano piano, ho aperto gli occhi e con atroce sofferenza mi sono fatta forza, ho preso tutto il coraggio che avevo e son passata alla concorrenza, senza dirglielo.
Quindi il 23 di settembre, sabato piovoso (mi sono rotta il mignolo destro contro la portiera della punto, ndr), ad orario di chiusura, con la paura e l’attrazione per il nuovo, il proibito, ho aperto la porta “Dlin-dlon” del centro Wind ed una squillantissima biondina mi ha accolto, come si accoglie un buono omaggio per una lampada in un centro abbronzante.
Gentilissima e spigliatissima approva il piano telefonico che ho sapientemente deciso insieme al mio economo di fiducia, Andre. Dammi la carta di identità, dammi il codice fiscale, fotocopie, zip e zap, la portabilità del numero, le promozioni che ci vuoi, firma qui qui e qui.
Tra una firma e l’altra, decisa preventivamente con la giuria a casa (Andre) la promozione che più conveniva, esclamo “E poi voglio noidueanlimited sul mio numero, per chiamare un altro numero wind che adesso compro per il mio ragazzo”.
Gelo.
“Sei sicura?!”, squittisce lei, allarmata, strabuzzando i suoi esoftalmici bulbi blu. Certo che sono sicura, che domande, spendo un misero euro a settimana e ci parlo gratis, col mio ragazzo wind.
Bisbiglia una maledizione “Sai, tutti quelli che fanno questa promozione poi si lasciano…”.
Bene, non mi pare nemmeno il caso di commentare una simile scemenza, frutto di ignorante superstizione e concludo il mio contratto d’acquisto salutando e facendo le corna.

Perché mai due che si amano e decidono di amarsi parlando al telefono gratuitamente dovrebbero lasciarsi? Forse proprio per il fatto che iniziano a parlare un sacco, cosa che prima non avrebbero fatto se le parole non fossero state gratuite? Forse che i fraintendimenti diventino gratuiti, pure quelli?
Non mi tocca affatto questa faccenda. A me non può capitare. Il mio futuro ragazzo wind ed io siamo due rane dalla bocca larga. Poverini gli altri.

Pochi giorni dopo, mentre sono in quel di Favignana, il cambio dell’operatore è definitivo: Totti ed io ci siamo lasciati, mi consolo fra le braccia di Panariello. Il mio ragazzo wind non lo chiamo ancora perché tanto stiamo facendo le vacanze insieme.
Torno dal limpido mare nella plumbea Rozzano e decido che è giunto il momento di fare chiacchiere col mio ragazzo wind.
Wind, il numero da lei chiamato non è attivo.
E io con chi parlo.
Con chi mi sfogherò, a chi racconterò le mie felicità, i miei disagi, con chi darò un nome alla mia vita? Non posso esser privata di parola, non posso rimanere ammutolita quando ho un fiume di parole pronto a sgorgare dalla mia bocca.
Non posso raccontare i miei disagi al disco registrato della Wind. Io ho bisogno del mio ragazzo wind con cui condividere le sfighe wind e le gioie life.
In non mi ricordo quale parte del mondo, spersa in qualche rima di terra esotica, c’è una popolazione che ha avuto un altissimo tasso di suicidi. Nel capire la motivazione di questa moria volontaria si è giunti ad una sensazionale scoperta: il loro linguaggio prevedeva la parola “dolore” per esprimere il concetto di “dolore fisico”, ma non esisteva nella loro lingua alcun tipo di vocabolo per esprimere il dolore psicologico, il dolore morale, il disagio interiore. Queste persone avevano bisogno di comunicare la loro sofferenza profonda, ma non avevano parole per poterlo far capire. Se anche l’avessero detto nessuno li avrebbe capiti.
Di fronte a cotanta frustrazione, l’epilogo fu la fine della vita.

Così inizio una serie di periodiche telefonate al centro Wind e un rapporto wind con la biondina con l’esoftalmo wind. Cerco ogni volta per tre settimane di spiegarle il problema e lei, ogni volta, frettolosa, mi squittisce che ha capito e che le devo dare:
-          La prima volta: il numero di telefono, attivazione in 24 ore, ciao.
-          La seconda volta: dammi il codice che c’è sulla scheda sim, attivazione in 24 ore, ciao ciao.
-          La terza volta: ah, sei tu, devi darmi anche il codice fiscale, te l’avevo detto l’altra volta? Ciao.
-          La quarta volta vengo io di persona da te e ti spiego bene quali sono gli errori di comunicazione fra te e me e tu mi attivi seduta stante la scheda sim sulla quale ho attiva una promozione di cui non posso usufruire. Ti spiego perché pago un euro a settimana per parlare con un ragazzo wind che non esiste.
-          Sempre la quarta volta, di persona, stavolta in bicicletta, ti spiego anche perché, secondo la tua teoria, tutti quelli che fanno questa promozione si lasciano. Ti spiego che si lasciano non perché parlino troppo e vadano incontro a fraintendimenti gratuiti, ma proprio per il contrario: non si parlano più. La loro parola non esiste e così non riescono ad esprimere sé stessi, annientandosi in una finta relazione telefonica, coi discorsi di prevalente contenuto qualunquista e menefreghista.
-          Commessa wind, io non voglio parlare dei massimi sistemi dell’universo, voglio solo comunicare. Anche solo per dire “Ciao, ti devo salutare che mi scappa la cacca.” Perché solo la comunicazione mi garantisce di non diventare stitica. Perché a furia di non evacuare, prima o poi si esplode. (Sono geriatra, non gastroenterologa)

Ringrazio tutte le morti mute, quelle morti per mancanza di parole. E ribadisco qui l’importanza di un’efficace (e non efficiente) conversazione.
Ribadisco che tutte le parole, purchè non offensive e cariche di frustrazioni, sono ammesse in ogni rapporto. Lo aiutano a crescere, lo approfondiscono, lo arricchiscono di forti emozioni, gli regalano la partecipazione.
Parlare è partecipare. Partecipare è un bellissimo regalo.
Ragazzo wind, fammi tanti regali dal sabato del Santuario di Caravaggio, perché non voglio vivere più venerdì come i poveri abitanti della Papua Nuova Guinea, o dove stavano loro.
Lascia che le tue parole e i tuoi sentimenti, di qualsiasi natura siano, viaggino nel wento, sino a me, che t’amo e lo so dire, se no esplodo.