lunedì 30 agosto 2010

1000 di me




Quando rimani solo con le cose, quando capisci che fra te e la realtà c’è solo la responsabilità di ciò che è bene o meglio per te stesso, allora capisci che ciò che vivi è importante, che raccontarlo e condividerlo con gli altri, con i tuoi amici fidati, non cambierebbe, comunque. Non potrebbe, perché è un incontro con il destino, con l’inevitabile che ti deve accadere e che devi vivere. Per forza. Vivere per forza, quando si è sopravvissuti spontaneamente senza accorgersene, per troppo tempo nella vita. Quando sopravvivere è stato confuso con la sana abitudine a tapparsi le orecchie al richiamo. Al richiamo indefinito di qualcosa altrettanto astratta, che non conosciamo, che non abbiamo mai conosciuto. Quando rimani solo con la stessa domanda a vorticarti nel cervello, forse pensi che la risposta sia un imperativo categorico, l’inizio di una ricerca, di una metanalisi, per poter poi dire o sì o no.
La risposta invece è vivere. Vivere quell’attimo sapendo di non poterlo raccontare, il segreto dei segreti. Avrà comunque senso, pur non essendo compreso. Come fai a comprendere una cosa che non puoi spiegare? Puoi spiegare il brivido che ti prende quando realizzi che non ci sono santi che tengano e che quella cosa su di te dovrà avere un impatto considerevole, proprio perché la stai già aspettando?! No, non lo puoi spiegare, ma lo sai. E questo già tanto basta.
Ci sono persone che vengono accusate di non riuscire a vedere al di là del proprio naso, ma forse non è peggio non riuscire a vedere dentro sè stessi? E’ peggio: ci costruiamo falsi io, personali categorizzazioni, dove rinchiudiamo ogni cellula del nostro corpo, ogni pulsione al pensiero. Partiamo con pregiudizi, verso noi stessi. Ci pregiudichiamo la conoscenza, di noi stessi. E, hai voglia ad urlare che ci sei e vuoi conoscerti, che, sì, va bene, sei bravo, ti impegni, la mattina ti svegli presto, fai ogni cosa al massimo delle tue possibilità, non bevi troppo, non fumi, sei educato, cerchi di non perdere la pazienza, fai del bene per riceverne in cambio. Ma che cambia? Che c’entra? Cos’è? Perché lo fai? E il giusto diventa regola e regola diventa sinonimo di costrizione e poi si soffoca e poi ci si allontana e poi si fa fatica a riavvicinarsi. Al me, me stesso, medesimo, non a Simona, che pure sì sono io, ma sono io nel mio interfacciarmi col mondo, che pure sono io, perché io lo sto guardando.
E allora va bene fare le cose con Simona, ma farle con me stessa no. Quando Simona esce di casa, con chi rimango? Dai, sediamoci qui in cucina e fumiamoci una sigaretta mentre metto su un caffè. Ce l’ho anche decaffeinato. Oppure preferisci dell’orzo? Sì, se vuoi l’acqua serviti pure da sola, ce l’ho in frigo, i bicchieri sono lì, apri, sopra al lavandino. Già, fa caldo. E mi immagino il silenzio, il caldo silenzio dell’estate del sud, che non vola una mosca, perché morirebbe di fatica o annegata nel suo stesso sudore. Così mi immagino quest’incontro, da sola, con le mille me, e già mi piacciono, perché sorridono, sono comode, disarmate. Me le immagino con quel sorriso che penso di avere in tutte quelle occasioni in cui mi sento una stupida, in cui mi sento scoperta, l’aria un po’ matta di quella che annaspa nelle sue piccole simpatiche sfighe. Con la fossetta asimmetrica che non mi ricordo mai su quale guancia stia, morbida sempre e dovunque. Da abbracciare, anche solo col pensiero. E già le vedo tutte sorelle, le mille me, le mille giornate di vita, in cui non sono sopravvissuta a nulla, anzi, magari sono pure morta. Arrendendomi al dolore, alla perdita, alla sconfitta, al nuovo capitolo, alla ricreazione, alla pagina bianca.
E mi viene in mente che chissà chi disse “una pagina bianca è una poesia nascosta”, carino!, ma io non sono brava a capirle, le poesie, nemmeno a leggerle, anzi, le rime non mi piacciono, mi fanno vergognare per chi le scrive,  per chi, penso io, se la tira un po’ troppo e forse sarebbe meglio parlasse come mangia. Per me se una frase suona bene è poesia, se un quadro mi piace è un’opera, se la melodia di una canzone mi accarezza di brividi è la mia colonna sonora. E lì finisce la mia conoscenza. Stop. Chiuso. Prendi e porta a casa. Ma allora mi viene anche in mente una giusta domanda “perché tutto ciò che è bello sta rinchiuso in un museo?”. Ingenua, ma vera. Perché quando ci piace qualcosa, lo reputiamo bello, bello per noi, ce lo stringiamo forte, forte, lo catturiamo, per riempirci ancora di un’altra cosa in più che ci possa caratterizzare, che ci possa far conoscere. Ma a chi? A noi stessi? O agli altri?
Perché dobbiamo farci conoscere dicendo ciò che ci piace e non ciò che siamo? E’ come lavarsi i denti col sapone.
CASO MAI


Ma non sarà che quando due persone si amano fanno paura? A chi? All’infelicità. L’infelicità sembra diventata il motore del mondo: rende parecchio. Due persone divise spendono più di due unite: due case, due  automobili, due lavatrici, due dentifrici, tutto doppio, anche l’infelicità. E, attenzione, le persone infelici spendono di più perché hanno bisogno di premiarsi.
No, così non va.
Ora io mi trovo in un certo imbarazzo: dovrei celebrare questo matrimonio, ma con quale coscienza, quale consapevolezza, quella dei loro sì? E quanti saranno adesso lì a rispondere? Quante voci, comportamenti, esperienze, ci sono dentro a quei due? Due sole o quattro, sei, otto, dieci, cento, mille?
Purtroppo io oggi dei loro sì non me ne faccio più niente. A meno che…a meno che, oggi, a darmi un sì, non siate proprio voi.  Da soli come potrebbero farcela, come potrebbero resistere? Per me oggi sarebbe tutto diverso se foste voi a sposarvi con loro, se foste anche voi pronti a condividere questo impegno. Allora sì che sarebbe un matrimonio speciale!
Oh, quando due persone amano, amano il mondo. E il mondo deve ricambiare, o no?!


Cinema muto.

"Ma me lo spieghi perchè non parli mai?"
"Perchè non serve."

Le storie sono come polvere nell'aria: la evitano nella corrente, si intrecciano per un momento e nessuno le riconosce più.

Dopo mezzanotte

domenica 29 agosto 2010

Sto imparando che non serve sempre saper vedere una ragione, che si può essere nudi e scalzi di qualsiasi ragione e non per questo essere meno veri di un fuoco acceso nella notte. So che le cose accadono perché se ne possa cogliere il senso. Coglierlo come si coglie un sasso nell’infinità di sassi del deserto per la sua irresistibile singolarità.
Il viaggiatore notturno.
Maurizio Maggiani

sabato 28 agosto 2010

Embè

Se ne frega di fiabe, anime che si incontrano, amano, vivono, sognano, godono. Se ne frega dell’amore, della lacrima, del simbolo, del colore, della passione, della ricevuta, della vendita, della resa, del diritto al risarcimento, dell’aspettativa, del ruolo, del dovuto, del vuoto, del pieno, della data, dell’augurio, della circostanza, dell’amore a comando, dell’amore, scaduto, della data di scadenza, del consumarsi preferibilmente entro il mai. Se ne frega dell’infinito, del mai, del sempre, per sempre, del primo, dell’ultimo, dell’unico, del solo e del vero. Se ne frega della promessa, dell’intenzione, della manovra, della ragione, della convinzione, dell’illusione, dell’ignoranza, dell’autocelebrazione, della circuizione, del sentimento circuito, dell’educazione, del sentimento educato, coatto, elevato, costruito, sopravvalutato, screditato, autoscreditato, finto, rigirato, vittimizzato, armato. Se ne frega del ricatto, della morale, del ricatto morale, della morale ricattata, della supplica, dell’autentico, del falso tinto a vero. Se ne frega del contorno, del limite, dell’eccesso, del bianco e del nero, delle vedute, del naso e del non saper guardare oltre. Se ne frega della pretesa, dell’autoritratto, del ritratto, del capire, del non capire, del motivo delle cose, delle azioni,delle persone, della giustizia, del giudizio, della categorizzazione, dell’uomo, dell’essere diverso, dell’appoggio, dell’incomprensione. Se ne frega del dispetto, del ricordo, del dito, che lega il cervello schiavo. Se ne frega dell’aspettativa, della vincita, di qualcuno che vince, della delusione vinta, della vittoria che delude. Se ne frega della regola, della protezione, della lotta, del sé, dell’io, della pace che il pensiero non troverà, del mai. Se ne frega dei monologhi, delle orecchie, dell’ascolto, di parole banali, di ripetizioni, di parole sorde, di ascolti inuditi. Se ne frega delle idee, dell’uguale, della crescita, della palude, dello stagno, della statica, dell’evolversi. Se ne frega di orgoglio, di miti, di aspirazioni, di piante arrampicanti, di binari, di direzioni. Se ne frega di legittimazioni, di conti, di rese dei conti, di altri, di sé stessi. Se ne frega del secondo, del primo, del minuto, del tempo, del panta rei, del trattenere, del custodire, del nascondere, del segreto, della condivisione. Se ne frega del rosa, dell’azzurro, del profumo e della puzza. Se ne frega della primavera, dell’estate, dell’autunno. Se ne frega del non detto, del grande significato, del significato, del senso, del sole, della pioggia, dell’abbraccio, del bacio, del legame, della solitudine, della convivenza, della temperanza, della tolleranza, della saggezza, del silenzio. Se ne frega della visione, della canzone, dell’acqua, della pelle, dei peli, delle stelle, delle nuvole, delle forchette, della tovaglia, dei cognomi, dei diminutivi, dei vezzeggiativi. Delle canzoni, dei versi, dei gesti, del pesto. Se ne frega del film, della poesia, del cavallo, della treccia, del balcone, del veleno, del cattivo, del buono, del bene, del male, dell’odio, dell’amore, della morte. Se ne frega delle foto, dei particolari, della grana, del ritocco, della perfezione, dell’idiozia, della vita.