domenica 13 maggio 2012

Whistle, close enough.



Non voglio dedicarti una canzone d’amore, non vorrei paragonarti ad una primavera, ad un sorriso da perdere il fiato, a respirare, al cielo, al sole, alla forza dell’amore.
Non me la sento di dedicarti niente di intangibile, di cui a parole poeti e cantautori e patetiche presenze sanno riempirsi la bocca, ma chissà se ne sono piene anche le azioni.
Non mi vergogno a dire che mi vergognerei ad avvicinarti ad un tramonto, ad accostare i miei sentimenti ad un colore, un profumo, un tempo atmosferico, un evento circadiano, una sfumatura di teoria.
Tutto quello  che ti vorrei buttare addosso è la realtà poliedrica che ci è data di vivere: la puzza di vaniglia al momento meno opportuno, il sudore, l’alito cattivo, la volontà di farsi capire, di non deragliare il biposto bimotore, pragmatismo ed esoterismo, un abbraccio stretto stretto nel dormiveglia, le sprimacciate prima di dormire, i silenzi perplessi e quelli assorti, la felicità della consuetudine e la paura della routine, la complicità di anni nata dalla sintonia di un attimo, la barba, i peli, il sangue, il tatto più estremo.
Io godo e soffro, senza fronzoli o grandi giri di parole. Godo della realtà mia di cui fai parte. Della realtà nostra che dobbiamo assolutamente vivere, toccandola, mangiandola, urlandola, approfittandone scostumatamente, prepotentemente di peso, come se non ci fregasse niente di nient’altro, una corsa ad accaparrarsi i posti migliori e fanculo a tutti gli altri, che poi, quando ti siedi e puoi stendere le gambe,  ti giri e mi guardi soddisfatto.
Fiiiischia.

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