domenica 20 maggio 2012
lunedì 14 maggio 2012
domenica 13 maggio 2012
Whistle, close enough.
Non voglio dedicarti una canzone d’amore, non
vorrei paragonarti ad una primavera, ad un sorriso da perdere il fiato, a respirare,
al cielo, al sole, alla forza dell’amore.
Non me la sento di dedicarti niente di
intangibile, di cui a parole poeti e cantautori e patetiche presenze sanno
riempirsi la bocca, ma chissà se ne sono piene anche le azioni.
Non mi vergogno a dire che mi vergognerei ad
avvicinarti ad un tramonto, ad accostare i miei sentimenti ad un colore, un
profumo, un tempo atmosferico, un evento circadiano, una sfumatura di teoria.
Tutto quello
che ti vorrei buttare addosso è la realtà poliedrica che ci è data di
vivere: la puzza di vaniglia al momento meno opportuno, il sudore, l’alito
cattivo, la volontà di farsi capire, di non deragliare il biposto bimotore,
pragmatismo ed esoterismo, un abbraccio stretto stretto nel dormiveglia, le
sprimacciate prima di dormire, i silenzi perplessi e quelli assorti, la
felicità della consuetudine e la paura della routine, la complicità di anni
nata dalla sintonia di un attimo, la barba, i peli, il sangue, il tatto più
estremo.
Io godo e soffro, senza fronzoli o grandi
giri di parole. Godo della realtà mia di cui fai parte. Della realtà nostra che
dobbiamo assolutamente vivere, toccandola, mangiandola, urlandola,
approfittandone scostumatamente, prepotentemente di peso, come se non ci
fregasse niente di nient’altro, una corsa ad accaparrarsi i posti migliori e
fanculo a tutti gli altri, che poi, quando ti siedi e puoi stendere le
gambe, ti giri e mi guardi soddisfatto.
Fiiiischia.
giovedì 10 maggio 2012
Chante Clair
Forse potrebbe essere giunto il momento di fare un po’ di pulizia tutt’attorno, che qui è impolverato da secoli e, ad esser sinceri, non c’è neanche un così buon’odore, infatti arriva a zanfate improvvise questa sfumatura di muffa, che rende tutto così vintage, ma anche un po’ malsano.
Dico che forse è giunto il momento perché non è che ne abbia poi così tanta voglia di prendere, guardare e decidere se sì o se no, se tenere o lasciare senza alcuna pietà. Forse, perché, un conto è passare solo l’aspirapolvere e dire “Bòn, pulito.”, ma un altro conto è tirare su le sedie, arrotolare i tappeti, spostare le piante e passare lo straccio, perché, insomma, chi ha un po’ di spirito casalingo (o anche solamente un po’ di senso della decenza), sa che devi riempire un secchio con del sapone detergente adatto per i pavimenti, magari mischiarci dentro anche un po’ di ammoniaca – giusto per asetticizzare l’ambiente – e fiumi di acqua calda, che sgrassa e scioglie lo sporco (ma non ci pensavano già i tensioattivi del sapone?), immergervi uno straccio, strizzarlo e passarlo, possibilmente due volte, sui pavimenti, avanti e indietro, insistendo sui punti più sporchi, per poi aspettare che asciughi. Insomma, porta via tempo e fatica.
Credo che mi sforzerò e riempirò pure sto secchio con acqua ben calda e detergente per pavimenti, l’ammoniaca, invece, la lascio stare, che mi fa pizzicare il naso. Il mio disturbo ossessivo-compulsivo, mi porta sempre dal fare trenta a dover a tutti i costi fare anche trentuno, a dover sempre esagerare, perché “stanchi” va di pari passo con “l’aver fatto” e l’aver fatto fa tacere, almeno per un po’, l’ossessione a fare e la compulsione a farlo.
Vorrei pulire proprio tutto, perché le cose, da pulite, sono più belle e sembrano anche più nuove, anche se sono vecchissime, e magari allora le guardi come se non le avessi mai possedute e sei contento di ripossederle ancora, come se le avessi appena acquistate.
Allora inizio col lavar via abbondanti incrostazioni di angoscia panica. Qui e lì, dietro ad angoli nascosti, depositi di paure di abbandoni, di gente che si volta, di orecchie che non ti sentono, di urla che non escono, frustrazioni ataviche, maledizioni al passato che influenza così tanto il presente. Do più passate, che qui pare non se ne vada via niente. Un bel pasticcio. Deve essere da tanto che non pulisco.
Pulisco anche un po’ di silenzi: le convinzioni che a volte sarebbe meglio non parlare, per poi scoprire che quando ti liberi delle cose, trovi sempre qualcuno a cui darle e che se ne sbarazzi per te, lasciandoti leggera e stupida, ma pur sempre libera.
Sto pulendo così bene che vedo occhi pieni e sorrisi a trentatrè denti. Mi pare anche di sentire fragorose risate, ma magari sono solo voci lontane.
Lavo i vetri del mio cervello e, finalmente, posso vedere bene tutto ciò che sta fuori e mi circonda. C’è chi fa fatica a guardarsi dentro, a scendere in profondità di sé stesso e di ciò che vive, che abbandona alla prima possibilità, scontrandosi con una realtà difficile da gestire se si tende a campare idealmente di grandi idealismi, sorretti da saldi, quanto utopici, ideali. Chi, ci prova ad andare contro la propria natura, non senza momenti di grande frustrazione, in cui riemerge una nostalgia per un passato in cui riconoscere la nascita di tale senso di inadeguatezza, lo stacco dalla serenità bambina, di giochi e amichetti e androni di palazzi di un sacco di piani di sogni. Chi gestisce le proprie ansie, prendendo le distanze da ciò che la società obbliga a ritenere importante, e cerca di godersi un tempo unico, con un pizzico di egoismo, ingrediente fondamentale per una ricetta di felicità. Chi combatte a suon di pazienza e sonni l’acidità di tanti bocconi amari e cerca comunque le proprie soddisfazioni e i primi traguardi, con tanti sacrifici, grandissima perseveranza, moltissima umiltà, ed egoismo quanto basta (ingrediente comune ad un sacco di ricette nella cucina della vita).
Vedo nuove fini e nuovi inizi, trottole rassegnate, nuovi luoghi in cui abitare, vecchie vite da ristrutturare e l’entusiasmo nello scegliere le finiture. Vedo sieste forzate, agognate tranquillità raggiunte, pennichelle pomeridiane. Un ringiovanimento generale, che, mi pare più un ritorno all’infanzia, stanchi di preoccuparsi, finalmente convinti che si fa meno fatica ad essere un po’ coraggiosi, piuttosto che continuare a temere per qualsiasi cosa.
Dalle finestre della mia testa, insomma, vedo la primavera, in fiore, e quasi sento il profumo e allora apro le finestre e lascio che tiri corrente e che mi vengano i brividi di freddo, nonostante fuori ci siano 30 gradi ed una provinciale, quanto precoce, afa estiva.
Tira corrente ed alza tutta la polvere di sfiducia nel futuro, accumulata in questi mesi di adattamento forzato a grandi eventi di vita. E ripenso a chi mi dice che non mi sono voluta godere il momento, che me lo sono negato, quasi come se non me lo fossi meritato. Forse è meglio che pulisca via tutto questo con un po’ di consapevolezza che mi merito qualcosa e molto di più di quanto non mi sia voluta regalare fino ad ora.
Mi merito di svegliarmi stordita al mattino, arrancando per tutta la giornata, perché ho vissuto troppo intensamente quella precedente, che ancora devo riprendermi. Mi merito sogni belli, dove tutti mi guardano in faccia e nessuno mi volta le spalle, dove non tento di urlare, semmai cerco di smettere di ridere.
Mi merito di vivere l’aspettativa come una speranza e la nostalgia come una consapevolezza.
Mi merito di meritarmi. E poi se lo meriteranno gli altri.
Quante cose dovrei ancora pulire qui dentro. Per il momento, però, il secchio è ormai pieno di acqua sporca, la casa ha una parvenza di pulito e a me è venuta voglia di cucinare, che mi piacerebbe avere ospiti a cena.
giovedì 12 aprile 2012
martedì 10 aprile 2012
Not only directions
Ti tengo sempre alla mia sinistra, dal lato del cuore.
Sto sempre alla tua destra, la parte della ragione.
mercoledì 28 marzo 2012
Tic tac
La tua barba segna il tempo che passa
il tuo sguardo che matura,
i tuoi lineamenti che invecchiano.
Hai perso il guizzo dell'adolescente
ne rimane traccia solo quando ridi di gusto,
all'inizio, che sembran due singhiozzi.
La tua barba ha tre colori:
quello castano adulto e forte,
quello rossastro delle montagne autunnali,
quello biondo di una foto di bambino.
Any questions?
Non saprei. Che devo dirti? Che è la prima volta che mi trovo in una situazione simile, che ho paura di non essere abbastanza smaliziata e son venuta qui con l’intento proprio di perdere la poca ingenuità che credo di avere, ma che mi piacerebbe tanto possedere, per incontrare un mondo nuovo, fatto di detti impliciti, che devi cogliere, se non vuoi essere fregato, di intenti trasversali, molto velati, secondi fini che appaiono troppo tardi, per poterti aiutare a capire quale sia la piega da far prendere alla situazione.
Domande, nessuna. No, davvero. Niente da dire, se non quanto già detto. Che mi sgolo a farmi capire, a farmi conoscere, ad affermare il mio bene, a spiegare che non è egoismo. Mi sgolo a lottare contro l’incredulità della gente di fronte alla gratuità di parole e di gesti. Mi stanco a pubblicizzare ciò che per gli altri non esiste più. Mi delude dover spiegare che dietro agli angoli si può nascondere la polvere, ma che non sempre le delusioni sono in agguato.
Non mi sembra di dover domandare, semmai vorrei fare proposte. Ho delle fantastiche proposte di collaborazione, qui nella ventiquattrore del mio cuore. Sono una persona volenterosa, e non c’è niente di più bello che lavorare per una causa comune e crederci e sentirsi utili. Non c’è niente di più bello che sentirsi utili e credere di esserlo. Pagami in importanza e indipendenza. Pagami in saggezza ed altruismo. Riempi questi vuoti, per favore, di sincera concretezza. Pagami in stima e rispetto, che non vedo l’ora di provarle.
Possiedo e stringo con finta seraficità l’amore, la protezione, affetti profondi e sinceri, ognuno vero a modo suo, ognuno indispensabile. Son la mia coperta ed il mio cuscino, quando fuori piove o è già mattino, quando ho paura e mi nascondo o quando sono stanca dopo una giornata passata a farlo.
Stringo maldestra parole appuntite, alle quali non sempre riesco a dare giusto verso e direzione. Fortuna che chi mi ama è paziente ed, al contempo, bersaglio mobile, che sa quando è meglio non farsi colpire.
Stringo disperata una fortuna che mi imprigiona in una delle mille vite che vivo, ma che avrei potuto non scegliere. A volte vivo al pian terreno, altre volte in un attico, ma preferisco una mansarda dove il cielo è più vicino al naso, sottoterra in taverna mi manca il respiro e ci morirei senza luce a scaldarmi e farmi sentire il sole.
Quindi, che domande vuole che le faccia? Ci siam dette niente per non doverci dire tutto. Un tutto che, a prima vista, non sta bene sviscerare e che, io, mi scuso, ma lei proprio non mi piace così tanto da poterglielo confessare.
Anzi, le dico arrivederci, anche se so che non la chiamerò, così come lei non alzerà la cornetta per me, perché, il tempo che non ha e non sa gestire, lo malgestirà in altro modo la prossima volta. Per cui a lei non ho nessuna domanda da fare, perché di lei non mi interessa proprio nulla.
Poi arrivano occasioni rubate. E mi sento normale ed in colpa nello stesso istante in cui mi affretto al cospetto dell’inesorabile convinzione che non sempre etica della vita ed etica del lavoro possano combaciare abbastanza fedelmente da farti ritenere non responsabile di come gira il mondo.
E, indipendentemente dalle mie capacità, dai miei credo in eco agli ideali, mi tormenta una domanda da una coscienza che spesso piange in silenzio e singhiozza fra bocconi di sushi.
Quanto costa? Qual è il prezzo che non ti riguarda, ma che comunque ti intaschi e ti rende miseramente felice?
Il prezzo lo si misura meglio in perdite. E se non hai perso niente, forse puoi misurarlo in paura, perché forse hai già pagato troppo e magari non t’hanno manco dato il resto.
How much?
mercoledì 7 marzo 2012
The old men are the new men
Dopo un'intensa mattinata a parlare di assicurazioni in Piazzale Baracca, nell'attesa di pranzare con mia madre, mi attardo a guardicchiare con rilassata noia tutti i prodotti geek del Darty di San Babila.
Mentre vago di accomodazione fra una cuffia Sony e un'altra boh, alle mie spalle due commessi improvvisano un botta e risposta di cinque battute in croce.
Commesso 1: "Che giorno è oggi?"
Commesso 2: "6 marzo. Il secondo anniversario con la mia ragazza. Che palle. Già due anni. Una rottura"
Commesso 1: "Beh, è tanto. Te la devi sposare!"
Commesso 2: "Mi sposerei con mille altre, ma non con lei. Che palle."
Commesso 1: "...."
Mentre metto a fuoco il copricellulare iPhone a stelle e strisce, mi ribolle il sangue e sono indecisa fra:
1. girarmi e corroderlo con una valangata di parole gnegne ben posizionate nel mio irritantissimo discorso, ancora in cantiere nel mio cervello, col dubbio che, però, questo babbuino di rosso vestito, non capisca manco una virgola di quanto sproloquiato, ottenendo quindi effetto "matta", ma mancando palesemente l'effetto "stronzo ignorante";
2. girarmi solo per avere la soddisfazione di guardare in faccia ciò che io credo possa essere la giusta rappresentanza di uomo mediocremente farcito di luoghi talmente comuni da far provincia ed alacremente imbevuto di quella buona dose di ignoranza che, nel mio immaginario, gli permette di godere la domenica allo stadio, di sopportare il sabato pomeriggio lo shopping di cattivo gusto di lei al centro commerciale, nella vana ed illusoria speranza di ricevere, la sera in macchina di ritorno dal cinema, rigorosamente multisala, a guardare un film, rigorosamente non d'essai, una lauta ed oralemanonverbale forma di riconoscenza.
Perdo attimi preziosi nella mia indecisione, sfuocando su un "calzino" di Hello Kitty, ormai vintage nel panorama immenso e monotono della moda smartphones primavera-estate 2012, e così, quando mi giro, con l'intenzione di fissare con sguardo da maniaca l'australopiteco scarlatto, improvvisando poi una logorrea in aramaico con effetto "posseduta", il commesso babbuino in questione è già sparito.
Sono molto delusa. Delusa di non aver potuto vederlo in faccia, di non aver potuto incrociare il suo sguardo sicuramente arguto. Delusa dall'ignavia o dall'ignoranza del genere.
Ominide, cosa ti spinge a passare ben (365x2)+1(st'anno è bisesto)=731 giorni della tua vita con una che ritieni una rottura? Sei tu, forse, stoico, ominide? Sei forse stato tarato al contrario, che avverti come piacevole ciò ce poi chiami "rottura" e come una rottura ciò che poi appelli come "sballo"? O forse, sei mica il rappresentante di quella categoria di passivi-non aggressivi per cui ogni cosa si subisce (dalla donna al presidente del consiglio, dalla colazione alla cena, dal cinema allo shopping), tranne il tifo allo stadio, le partite di calcetto e le birrette cogli amici della compagnia, rigorosamente solo al venerdì sera, perchè il sabato sera è di monopolio esclusivo della tua lei?
Sparo tutta sta serie di luoghi comuni, ma, cacchio, me li tiri fuori.
Come fai a stare insieme ad una rottura di scatole? Come puoi non prendere in mano i tuoi desideri e plasmarli a realtà? Come puoi non lasciarti scappare un "uffa" quando la mattina apri gli occhi e la vedi, dopo 731 giorni, in tutto quello splendore che non vuoi, che cambieresti con altre mille? Come fai, stando a questi tristi presupposti, accontentarti?
Lascio queste afinalistiche dissertazioni mentali per mettermi a fotografare frigoriferi, che, prima o poi, avrò qualcosa da metterci dentro...
Pranzo al vapore e uvette e mi ributto nella pendolarità.
Pullman per casa, orario scolastico, giro accessorio a raccogliere gli studenti dell'istituto superiore nelle vicinanze. Sale un ragazzo, biondino e boccoloso, occhi azzurri e qualche brufolo. E' carino. Da solo, in mezzo agli altri studenti.
Si siede e risponde al telefono. Attento, mugugna e annuisce. E poi, dopo minuti di devoto silenzio, serio e importante, come se stesse sostenendo un colloquio di lavoro, dice: "Amore, però devi stare attenta: scrivere una tesina di bioetica, dove per forza trapela come la pensi, può essere un'arma a doppio taglio. Può essere contestata e quindi tu hai bisogno di padroneggiare bene l'argomento ed essere convinta di quanto affermi, supportandolo bene. E blablabla..."
Giuro, dei blablabla intelligentissimi, pieni di spunti, molto arguti, premurosi, scaltri e lungimiranti. Una voce ferma a dar consigli che solo un cretino non potrebbe seguire. Una voce rassicurante a dire "Ti darò una mano io: vediamo insieme come strutturare il lavoro e come supportarlo".
Allibita da diciotto anni di bellezza e saggezza, contaccambiati da una ragazza che lo chiama amore e sta preparando da mangiare, mentre fa chiacchiere costruttive col suo uomo, che, per lei, vuole il meglio e se ne assicura.
Immagino il biondino vestito di rosso, con una camicia rossa, come quella di quel babbuino del Darty. Gli starebbe meglio e la riempirebbe come un uomo che ancora non è, ma che si merita tanto di essere. L'uomo che sceglie ed agisce, che vuole e si sacrifica con passione per ottenere il necessario per la propria realizzazione. Un uomo che guarda avanti, parlando al telefono con la sua donna. Un uomo che ama e consiglia, perchè volere il bene di qualcuno significa proprio volerne solo il bene.
Sospiro tra me e me, innamorata delle belle speranze nelle giovani generazioni, dei piccoli uomini che un giorno saranno grandi, dei rapporti che è proprio bello che come creta ci costruiamo tu ed io/lei&lui vicendevolmente, a nostro piacimento, ma con una forma indistruttibile. Sto ancora sospirando trepidante di cuori nel mondo con un cielo di nuvole rosa, quando sento un clacson e tanto vociare.
L'autista è fermo in curva ad un incrocio, incastrato nella manovra da un auto che si è fermata molto oltre lo stop, ma che non può arretrare perchè dietro di lei si è formata una coda lunghissima di altre auto caprone.
Su quest'auto siede sola alla guida una donna intenta a parlare al cellulare, molto infastidita per la testardaggine dell'autista del pullman. Talmente infastidita, anzi, che, quando il semaforo per lei diventa verde e non può passare, causa pullman di traverso all'incrocio, e tutti quelli in coda dietro di lei iniziano compulsivamente a suonare il clacson, manco fosse una bacchetta magica che fa sparire il traffico, lei indispettita, gonfia il petto, apre la portiera, scende dalla macchina, rigonfia il petto, butta il telefono sul sedile, rigonfia nuovamente il petto, e tactactactac, si accosta a piccoli e veloci passi sotto il finestrino dell'autista, iniziando a sbraitare e ordinandogli di fare manovra per liberare l'incrocio. La risposta ovvia dell'autista è stata l'irremovibilità della sua decisione e del mezzo pubblico di trasporto. Lei fuma di rabbia, gonfia come un piccione in calore, ma senza tubare, gli urla insulti di ogni volgarità possibile e risale in auto. Nel frattempo le pecore dietro di lei si erano ingegnate a creare quei due metri di spazio, affinchè lei potesse arretrare, facendo finalmente passare il nostro pullman.
L'autista le si accosta con la colonna sonora dei suoi garbati insulti e con tutta calma le dice: "Guardi dov'è la linea d'arresto e poi taccia.".
Babbuino di rosso vestito, ti concedo il tuo basso ed ignorante minidiscorsetto, solo se mi dici che la deficiente all'incrocio è la tua donna.
domenica 15 gennaio 2012
Please, forget.
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